INVITO
La
S.V. è gentilmente invitata alla inaugurazione della mostra
e
alla presentazione del libro/catalogo:
FABRIZIO
BERTUCCIOLI
MARCO
FIORAMANTI
Scene
originarie e clandestine
Testo
di Paolo Morelli
Jouvence
2004
ISBN
88-7801-369-2
64
pag. a colori
Euro
5,00
Galleria
S. Francesco a Ripa
Via
S. Francesco a Ripa, 69
00153
Roma (Trastevere)
giovedi
28 ottobre
ore
19,00
(fino
al 28 novembre 2004)
Orario
17-20,30 e per appuntamento (chiuso festivi) Finissage: domenica
28 novembre (ore 11-14)
Scene originarie e clandestine
Vi dico come le cose si
sono incontrate, se ci riesco e se si sono
incontrate.
A Mosca, sulla Kamennyj
Ostrov, a due passi dal Cremlino, troneggia una statua enorme di Pietro
il Grande inseguito da tre velieri. Un mio amico scrittore che conosce
bene la Russia mi ha raccontato la storia. Qualche anno fa, con ogni probabilità
nel 1992, un importante scultore russo aveva fatto una statua di Cristoforo
Colombo che intendeva vendere in Spagna. Per
qualche ragione gli spagnoli
la rifiutarono, provò coi portoghesi e gli italiani ma con lo stesso
risultato. Puntò allora su un amico d¹infanzia, in quel momento
sindaco di Mosca, e gliela propose. Quello non si è tirato certo
indietro, solo che una statua per Colombo in città proprio non serviva,
e allora ebbero l¹idea, tanto nessuno se ne accorge, di sostituirgli
semplicemente la testa con quella di Pietro il Grande, cosa che l¹artista
si affrettò a eseguire, intascando la congrua prebenda. Così
ora gli zigomi di Pietro il Grande tagliano il vento siberiano, inseguiti
da tre
attonite caravelle.
Mentre il mio amico mi
raccontava la storia, ho ricevuto una telefonata di Alberto Gasparri che
mi proponeva di scrivere sulla mostra degli artisti Fabrizio Bertuccioli
e Marco Fioramanti. Bertuccioli e Fioramanti, assieme a Gasparri e a Silvio
Pasqualini, da qualche anno danno vita a Roma al Movimento degli Artisti
Clandestini (MAC), un sodalizio di sensibilità e di
intenti che, oltre che
movimento, si potrebbe a buon diritto chiamare cenacolo.
Subito dopo sono andato
nella mia stanza, dove sul comodino c¹era un grosso tomo appena uscito,
La linea e il circolo, capolavoro del filosofo clandestino Enzo Melandri.
Melandri si potrebbe definire una specie di archeologo nel paese dell¹Analogia,
paese in cui tutti abitiamo ma che
consideriamo minore, quasi
con senso di colpa. La sua ambiziosissima filosofia è il tentativo
di scoprire come l¹azione legalizzatrice della logica e quella inventiva
dell¹analogia possano smettere la loro remotissima 'guerra civile¹,
scovando punti d¹equilibrio sempre nuovi, poco importa se
stabili o no. Per farlo,
bisogna riandare a quelle Oscene originarie¹ che hanno fissato il
trionfo della logica e l¹emarginazione dell¹analogia, e lanciare
uno sguardo oltre quella disunione. E per questo, direi quasi naturalmente,
Melandri ha vissuto da marginale fino alla sua morte nel 1993.
Allora mi sono messo a
pensare.
Certo, ho pensato, l¹enormità
di un Pietro il Grande inseguito dalle caravelle suggerisce molte analogie.
Prima di tutte il taglio della testa.
Non solo la grettezza dell¹arte
alle prese col potere, ma la cialtroneria di un potere allo sbando. Non
è tanto la perenne arroganza del potere che sforna metafore, quanto
invece, ho pensato, il trionfo della logica. L¹arte non sa dove sbattere
la testa, noi siamo i padroni dell¹arte, quindi gliela
tagliamo, questo il grado
di sfinitezza del sillogismo, inseguito da tre caravelle su una via ventosa
di Mosca. Sembra un paradosso, ma è una civiltà senza testa
il cui impero è la logica, quella logica che ha ridotto, a colpi
di non-contraddizione, tutta l¹esperienza al campo del cosciente e
del razionale, negando o minimizzando la persistenza del mistero, la sua
centralità e la sua forza.
Che le cose del mondo non
cambino mai è un vecchio e venerabile adagio, che non impedisce
di intuirvi un movimento, forse circolare, e delle diverse caratteristiche
in ogni epoca. Difatti ciò che non cambia è il continuo mutare
delle forme in cui il mondo si manifesta. E la forma odierna non ha la
testa apposto, almeno in questa parte di mondo. Io credo, ho pensato, che
non sia mai esistita una
schiavitù così perfetta come l¹odierna, nella quale
catene e manganelli sono ormai figurazioni quasi romantiche. Ogni nuovo
sapere tecnologico dalla ruota in poi, ho pensato, non è solo un¹aggiunta,
come insiste a dire l¹umanista, per il quale l¹uomo è
sempre e comunque la
misura di tutto. Ogni tecnologia
provoca mutazioni psico-fisiologiche irreversibili, dalla ruota in poi,
ma è chiaro che quando i mezzi sono così invasivi, e soprattutto
riguardano da vicino il sistema nervoso, allora i mutamenti riguarderanno
le funzioni mentali e la loro gestione. Ecco quindi
che ci troviamo nel bel
mezzo di una schiavitù ideale, addirittura utopica, senza perfino
l¹evidenza dei mezzi di coercizione, senza alcun controllo centralizzato
e con la figura, questa sì pare nuova, dello schiavo ebete e contento,
che paga per affittare ad altri la propria mente e nel frattempo si trastulla,
coi giocattoli avuti in cambio.
Tale schiavo è deprivato,
non solo dell¹esperienza in sé, ma della
sensibilità sufficiente
all¹esperienza. Paga la sua ebetudine con una pressoché totale
incapacità a commuoversi, reso insensibile perché sempre
più invaso, occupato da un sovraccarico in primo luogo visivo.
Nell¹inflazione mediatica
il flusso continuo delle rappresentazioni visive an-estetizza la percezione,
la depriva del senso, impoverisce l¹impatto estetico in chi è
incapace comunque di goderne gli effetti. Per l¹arte ciò suggerirebbe
un vuoto di speranze: a chi è dato un barlume di visione si
oppone un silenzio ostile
e un¹appena più benevola irrisione. Così, a cospetto
di una an-estetizzazione pressoché totale, il ruolo dell¹artista
non può essere altro che quello di sciamano e stratega allo stesso
tempo, prendere confidenza con la grandezza facendosi signore dell¹analogia,
ma pure capace di inventare scarti e sorprese rispetto a una logica asfittica
e
binaria, sempre più
demente e poliziesca. Di fronte alla cecità
dell¹immaginazione,
non può far altro che prendere rincorse, preferire di no, lasciar
cadere appena possibile il senso imperante, tentare ogni volta riconoscimenti
profondi e senza interferenze.
Allora il fiuto del visionario
si mette a caccia di posture, posizioni che gli permettano di continuare
a vivere, a vedere, a commuoversi e a comunicare, dedicare, la sua commozione.
Inventa strategie, diventa in questo caso clandestino, o forse già
lo è, naturalmente. Questa è la condizione, tale la postura,
non ce ne possono essere altre. E la sua visione, perennemente in cerca
di punti di contatto narrativi, di quelle
frasi del rito a cui è
necessario credere per creare il mondo appena un po¹ coerente, almeno
un po¹ vivibile e visibile, getterà lo sguardo necessariamente
su, e magari oltre quelle Oscene originarie¹, ho pensato.
Si vede quindi come segretezza
e clandestinità non siano vezzi o snobismi,bensì scelte obbligate,
per chi vive l¹arte non come ammennicolo da appendersi alla mente,
come professione o estensione logica, ma come atto del dare. La cosiddetta
visibilità, non è forse il trionfo di una logica avvilente?
Non è vero che i mediocri si mettono in fila e pagano, per mettersi
in mostra? Avere successo oggi significa piacere allo stato di
ebetudine di massa. Chi
potrebbe vantarsene?
Sono il fiuto e lo sguardo
che accomunano il lavoro di Fabrizio Bertuccioli e Marco Fioramanti. La
loro è l¹arte di chi cerca di fabbricare oggetti tramite i
quali sperimentare la comunione con l¹universo. È l¹arte
come vitalità, come dare, e la tonalità che li accomuna è
quella dell¹artista vero ed efficace: la persistenza di un mistero
che nessuna logica appurerà mai o farà finta di appurare.
È l¹arte sinonimo di disciplina, l¹esercizio
delle virtù nella
ritualità, nella cerimonia, il culto dell¹invisibile.
In Bertuccioli l¹impressione
è che si impari a vedere allorché non si eserciti alcun controllo
cosciente, intenzionale, sul proprio sguardo. I limiti della tela ampliano
il tempo, ritualizzano la memoria del vago, del mistero che continua ad
essere la fonte di ogni movimento del pensiero e di linguaggio. Come le
forme e i colori, anche i segni si rispondono in proto-narrazioni, come
un prologo innamorato e laico in cui ritmi in levare
e percezioni non rinunciabili
siano in cerca di una rima comune, una cadenza, di una sinestesia. L¹instabilità
della percezione si fa unica legge impermanente, e il sapere non solo viene
dopo, ma soprattutto è qualcosa che possiamo soltanto immaginare.
La frequente assenza di un centro e della relativa messa a fuoco rende
possibile l¹agire senza interferenze, i
riverberi di luce o assonanze
sono in vigile attesa. Si sta immersi in una sorta di quiete attiva, il
cui valore ostensivo non è mai abbacinante, ma sempre un po¹
laterale e retinato, dimesso quasi ed accorto, come un gatto selvaggio
che guardi rifare le cose del mondo, le riscopra ogni volta nascosto nel
folto, e le parole per imitarle siano ancora materia, densa di colore.
Di Fioramanti invece le
icone acheropite (cioè non fatte da mano d¹uomo) ci dicono
che ogni intuizione, di segni e di mondi, è dovuta al duro esercizio
nel solco della tradizione. Ogni tratto, ogni linea di colore, spesso vivi
e sferzanti, sono contemporaneamente l¹intero quadro, che non si pone
però in
alto, ma ad altezza del
cuore, perché non abbiamo bisogno di trascendenza, qui in occidente,
ma al contrario di radicarci alla terra e alle sue leggi, e non ha alcun
senso dimenarsi, far finta di sognare o fuggire. Le icone, ma pure altri
lavori di Marco, sono intagli o cesure, pause votive che ci attendono,
divinazioni improvvise dovute all¹attenzione, e ci ricordano come
sia assurdo pensare che
il mondo c¹era prima e ci sarà dopo di noi. Le ombre del tempo,
mai ferme sullo sfondo, avvertono che siamo già come vogliamo diventare,
che la vitalità originaria è sempre con noi anche se non
smettiamo di cercarla, ed è la logica a suggerire che prima viene
il male e poi il bene non smetterà di curarlo, è la logica
a imporre l¹illusoria continuità del sé. Ma il gesto
dello sciamano, caldo come quello del nomade,
talvolta apotropaico, non
perde il momento presente e soprattutto non può mentire.
Perché le certezze
della logica sono rigide, sempre più sofisticate e quindi fragili,
e con nettezza e costanza si possono far cadere. Non forniamo troppi appigli
alla logica, è la sola via. Ridando la voce a Melandri,³conviene
dunque sempre cercare analogie, nella speranza che siano rivoluzionarie.
Ma è come cercare l¹ago nel pagliaio. Le analogie non mancano
mai. Dovremmo forse interessarci della paglia? No, la verifica si trova
nell¹ago. Quel che manca non sono le analogie; sono le rivoluzioni.
Noi siamo per una filosofia
dell¹ago e non della paglia. Ed essa sta o cade secondo le sorti alterne
della rivoluzione².
E, per rivoluzione, noi
possiamo solo immaginare l¹alternarsi di decadenza e rinascita, l¹ultima
cosa che ho pensato.
Roma, 8 settembre 2004
Paolo Morelli
PAOLO
MORELLI, SCRITTORE, HA RECENTEMENTE PUBBLICATO "VADEMECUM PER PERDERSI
IN
MONTAGNA" (NOTTETEMPO ED.)
Tecniche
clandestine di percezione visiva
Per me non c¹è
alcun modo di essere nel mondo, e perciò nessuna descrizione può
coglierlo. Ma ci sono molti modi di essere nel mondo, e ogni descrizione
vera ne coglie uno. (...) Poiché al mistico interessa il modo di
essere del mondo, la sua risposta ultima alla questione deve risultare,
come egli
stesso riconosce, il silenzio.
Poiché in vece a me interessano i modi di essere del mondo, la mia
risposta sarà di costruire una o molte descrizioni.1
Nelson Goodman
Roma, 25 settembre 2004
Caro Fabrizio,
l¹arte, a mio avviso,
è una delle sonde più efficaci per esplorare il dato reale,
avendo una forte capacità di trapassarlo. È una convinzione
sperimentata a lungo e verificata anche in paesi i cui comportamenti sono
di gran lunga differenti dai nostri; un rapporto esperienziale, una forma
obliqua, trasversale, onnivora, totalizzante del ³vedere².
Come Aureliano Buendìa
nella terra di Macondo, anche io sono nato con gli occhi aperti. Una mattina
fredda e luminosa del ¹54, l¹11 febbraio alle 7,37 nella clinica
al 22 di Via Guido d¹Arezzo, dietro Villa Borghese, dove ora c¹è
una questura. Forse già da allora cercavo di capire quell¹effetto
strano
e sconvolgente che col
tempo mi avrebbe preso così tanto e portato ad esplorare questo
campo individuando personali tecniche clandestine di percezione visiva.
Il nominalismo nella narrativa
araba, ad esempio, ma anche nel linguaggio parlato nei paesi della mezza
luna fertile, denota con un nome tutte le proprietà sensoriali che
a quello si conviene: quando scrive Omare¹, descrive al contempo l¹insieme
dell¹azzurro-verde, la fluidità, l¹odore umido e frizzante,
il sapore salino, le forme cangianti della spuma, fino ai guizzi incontrollati
dei pesci. Col tempo, sempre più mi era chiaro che qualcosa non
tornava: tutti agivano Oper convenzione¹ circa la percezione della
realtà, e questo potere inconscio che io sentivo così forte
passava inosservato, testimone inaccessibile, di generazione in generazione.
Con il diventare adulti, ci trasformiamo sempre più in ciò
che crediamo essere vero, perdendo di vista la realtà, quella realtà
che ci è stata presentata e insegnata con una sorta di inganno inconsapevole.
Attraverso la fisica, ad esempio, si può facilmente dimostrare come
sia possibile l¹ipotesi di un ³temporizzontale², sincronico
e sintagmatico. Dice il fisico: ³Proviamo ad immaginare tutto l¹Universo,
considerato ad un determinato istante di tempo, come un gigantesco foglio
di carta steso su un altrettanto gigantesco tavolo. Ogni punto del foglio
individuerà, come su una mappa o una fotografia, un certo luogo
dell¹Universo a quell¹istante. Ad ogni istante avremo dunque
un foglio di questo tipo, e possiamo immaginare di sovrapporre i fogli
in ordine di tempo crescente: se la ³fotografia² B è più
recente della A, metteremo B sopra A e viceversa. (...) Tecnicamente, questa
pila prende il nome di ³spaziotempo². Il nostro ³essere
qui ora² equivale ad un punto della pila. Se un evento A emette un
segnale verso un evento B, questo significa che A precede B, e si trova
dunque su una foto sottostante a quella dove si trova B. Supponiamo però
che da B esca un segnale diretto verso A, dunque verso il passato, tale
da annullare il segnale che A invia a B. Che cosa si vede globalmente?
Semplicemente che A non ha inviato nessun
segnale a B. Non si vede
né il segnale ³giusto² emesso da A verso B né quello
³sbagliato² emesso da B verso A. Pertanto, A e B sono due eventi
non connessi né dalla propagazione di materia, né dalla propagazione
di energia di alcun tipo; tra A e B non c¹è alcuna connessione
osservabile. Si sarebbe dunque tentati di bollare questa costruzione come
un puro gioco immaginativo
senza interesse, ma attenzione:
ogni segnale trasporta informazione su chi lo trasmette. Quindi, se la
costruzione è corretta, B è informato su ciò che avviene
in A, e viceversa. Ne deriva che ogni evento può essere informato
sugli altri eventi dell¹Universo, tanto passati quanto futuri, senza
essere
connesso ad essi da segnali
energetici o materiali osservabili. (...)²2. Io sono convinto che
³tutto sia pronto, apparecchiato, già sul tavolo², ma
in continuo mutamento. Persa di vista l¹originaria capacità
di pre-sentire le cose - l¹abbiamo chiamata Ocasualità¹
- interamente collegate al resto, come noi, gli uni agli altri, cerco di
mostrarlo in chiave percettiva
(quante cose, pure reali,
ignoriamo dell¹esistenza). E cioè, in certe condizioni, sarebbe
tuttora possibile conoscere ciò che sta per accadere, ma non solo,
anche quello che non accadrà mai. Tutto dipende dalle scelte che
compiamo, istante per istante, modificando le altre infinite reali possibilità.
Questa Ovisione clandestina¹ della realtà mi permette di vivere
passionalmente le cose,
apprezzarne l¹attimo e moltiplicarlo,
istantaneamente, all¹infinito.
Cogito, ergo tango è
il titolo di uno dei miei cinque brevi testi poetici sull'erotismo: cogito,
mi concentro su di te (il prodigio che si avvera), ti concepisco nella
mente, pienamente consapevole della nostra compresenza; ergo tango,
posso quindi anche toccarti, perché sei desiderata, importante,
ed oltre a sentirmi tuo,
mi sento te; quale emozione più forte nel sentirsi tutt'uno con
qualcuno? (³... l'ebbrezza di un momento riuscito; certi mi hanno
accarezzata dolcemente, altri mi hanno fatto sentire le tue mani scorrere
tra le mie gambe, le tue dita bagnate entrare dentro di me (...) È
bello aver scoperto il tumulto di sensazioni (fisiche e non) che ho provato
in seguito ai tuoi scritti,
questi ultimi compresi, ma quello che mi appare ancora più incredibile
è la voglia che ho avuto e che ho di comunicarti e descrivere le
mie fantasie²). Non sarà forse il caso d'indagare a fondo l'approccio
telepatico, e concentrarsi su quei momenti magici in cui le cose subito
pensate, improvvisamente accadono? L'unica regola, comunque, è quella
di non cristallizzarne nessuna. Come gli spigoli di una saponetta sul
lavandino, anche noi, ogni
giorno, cambiamo forma; ma anche noi, come le scarpe che piano piano si
accomodano al piede, lentamente ci adattiamo (al)la vita e... non ci facciamo
più caso, tutto scorre uguale; è come ³chiudere gli
occhi all'interno degli occhi chiusi²3. Le nostre abitudini, trappole
invisibili, sottili come nasse; noi, i pesci, ci scivoliamo dentro senza
accorgercene. Senza capire che sta proprio lì, la vita, nella
consapevolezza delle biforcazioni,
nell¹attimo preciso che anticipa la decisione, nella forforalità
dei cambiamenti, nell¹improvvisazione conscia: la magia ordinaria¹
del Panta rei. Eppure tutti saremmo in grado di discernere l¹onda
cosmica venuta dall¹Oriente: l¹ascolto del corpo nella sua
interezza. Bersagli e arcieri
nello stesso tempo, siamo noi stessi la freccia scagliata forte per trafiggerci.
La regola, una sola, quella del tocca-e-sei-toccato, ma allora, dipende
Ocome¹ tocchi. È bene che si spiazzino le regole del gioco,
in questo andare visionario.³Pazienza e anarchia nella soffitta clandestina.
In un rilancio d¹eco²4. ³La maga attinge al pozzo²5
e riconosce gli esseri senzienti, l¹orecchio a terra, perennemente
instabili, volutamente in bilico; un¹esistenza spinta al limite
dell¹errore, inesistenti
alle regole sociali: i polpastrelli clandestini non segnano impronte nazionaliste
nel censimento universale. Dovremmo usare, invece, pseudonimi all¹infinito
(io ne ho già usati più di sette), invece dei tanti Luther
Blisset. Dovremmo sovrapporci maschere su maschere, ma non
ce n¹è più
bisogno, siamo già fuori: per scelta e per definizione. ³Ero
dentro un labirinto e vedevo luci in lontananza, ma non potevo uscire:
erano tutte Oentrate¹!² recitava Carmelo Bene. Per questo siamo
³TAZ² e troviamo senso pieno nel fare quotidiano, coi rischi
d¹avventura (benvenuti) nel
cambio di frontiere, del
colore della pelle e dei capelli. Percepire
significa abituarsi a vedere
al contempo da-tanto-lontano e tanto-vicino, in silenzio, finché
l¹occhio non afferra e oltrepassa la soglia, e scopre, tra il particolare
e la sua ombra, la trasparenza dell¹altrove (come accade per
alcune delle immagini scelte
per questo piccolo catalogo). Il segreto sta nello stupore-dell¹attimo-sospeso,
nell¹accettazione volontaria del miraggio, nell¹atto deciso,
atto a metamorfosare il desiderio, in(tro)ducendo articolate strategie.
Allarghiamo il nostro campo percettivo (³assai pochi hanno una idea
del fatto che l¹erba illuminata è gialla², scriveva John
Ruskin); in infiniti modi l¹attenzione si offre a noi spontanea, ma
dobbiamo essere pronti lì a carpirla al volo. Impariamolo,l¹effetto
simultaneo del sentirci ubiqui... fino a voltarci indietro trovando noi
stessi dall¹altra parte della strada. L¹uso di sostanze Ocon
principi attivi¹ ci
dà le certezze di un tempo irregolare - accelerato o rallentato
- e ci conferma che l¹unica dimensione è quella del Opresente¹.
Come quella volta nel Maqqwanpur7,
a sud della valle di Kathmandu, dopo aver bevuto Oroksi¹ (una sorta
di distillato di mais mescolato con chissacché) con uno sciamano
Tamang, prima di una Oseduta¹ notturna. Altre volte ho sollecitato
il mio organismo a stimoli anisotropi, a percezioni destrutturate con l¹evidente
e rapido alternarsi organico di lucidità estrema e subitanei stati-down.
(³Le performance di Marco Fioramanti sono
dei veri e propri viaggi
visuali che stimolano a più livelli l¹attenzione dell¹osservatore:
l¹azione mescola il visibile all¹invisibile delle parole, dei
suoni e degli odori mentre immagini a forte connotato simbolico innestano
un sistema percettivo alterato che tende a modificare lo stato di percezione
ordinario²8, scrive Lidia Reghini di Pontremoli). Illusione,
dunque, quella del tempo.
La mancanza d¹informazioni (come nei giardini zen circondati da mura)
- o il suo eccesso (come nei movimenti simultanei del tai-chi) mandano
la mente in tilt. Infiniti sono i modi per diventare clandestini, basta
spingersi coscientemente un po¹ più in là, sapendo che
tutto quello che ora, adesso, è qui, coesiste con altro-da-sé.
C¹è molto più
di quello che vediamo.
Nella figura qui di sopra
(tav. I), cosa riconosci, tra i segni e le parole?
Allontana e avvicina il
libretto agli occhi, finché non riconosci,
all¹improvviso, una
figura sado/maso. E nello stereogramma rappresentato nella pagina che segue
(tav. II), non vedi l¹atto sessuale: lui seduto al centro, parzialmente
già dentro di lei, di spalle, seduta su di lui? Guarda oltre l¹immagine,
incrocia e fissa lo sguardo come se guardassi in lontananza. Osserva invece
quei segni sulla pietra (tav. III), non vedi come cambiano, ora vuoti,
ora pieni, a seconda della luce e dell¹ombra che gli
dedichi? Di nuovo l¹attimo
sospeso. Questo è, io credo, il senso dell¹arte.
Apriamo gli occhi, dunque,
restiamo leggeri, ma attenti. ³Dovremmo vivere sulla terra come una
ruota che gira: essa si limita a toccare terra in un punto soltanto e tiene
sollevati tutti gli altri punti²9.
E quando un giorno, i brividi
ci correranno all¹improvviso sulla schiena, saremo diventati clandestini
anche dentro il cuore, e il tempo per noi non sarà più una
cosa separata.
Buon lavoro, fratello
Marco
1. Nelson Goodman, The way
the world is, Review of Metaphysics vol. 14 (1960), ne I linguaggi dell¹arte,
Milano 1976
2. Leonardo Chiatti, L¹Opera
e il cosmo, Fioramanti 1983-2003, Roma 2004
3. Peter Handke, Il Cielo
sopra Berlino (regia Wim Wenders), 1987
4. Eva Rachele Grassi,
in Marco Fioramanti, Nome di Lancia, Roma 1995
5. Sergio Sarritzu, Notte
di luna piena davanti a un giardino zen, Roma 1995
6. Hakim Bey, TAZ Temporary
Autonomous Zone, Roma, 1990
7. Lidia Reghini di Pontremoli,
Primitivi Urbani, pp. 93-95, Roma 1998
8. ibid., p. 89
9. John B. Dunlop, Amvrosij
di Optina, Magnano (BL) 2004
Marco Fioramanti nasce a
Roma nel 1954. Inizia l'attività artistica con una grafica surrealista
e tecniche incisorie. Nel ¹79 si laurea in Ingegneria civile con Giorgio
Croci (³per capire le regole del gioco²). I successivi studi
di filosofia sulla percezione estetica (³per decodificare quelle regole²)
lo portano a capire che la sua strada è l¹esplorazione artistica.
Nel 1982 partecipa a Roma
alla fondazione del Movimento Trattista. L¹anno successivo si trasferisce
per 4 anni a Berlino Ovest dove fonda il Gruppo multimediale Trattista
Berlin. Qui realizza l¹installazione con la Volkswagen simulando l¹abbattimento
del Muro. Soggiorna poi a Barcellona (1987) e a New York (1988) dove elabora
il rapporto totem-grattacielo. Fanno seguito ricerche sul campo in Cina
e Tibet (1992), Marocco (1995, 1999), sullo sciamanismo in Nepal (1997)
e in Portogallo (1999-2000). Nel 1996 vive a Parigi e partecipa all¹attività
del Gruppo Cyber-Dada. Nel 2000 fonda a Roma con Bertuccioli, Gasparri
e Pasqualini il Movimento di pittura clandestina.
Nel 2004 pubblica la monografia:
Marco Fioramanti: 1983-2003 con la presentazione di Pietro Montani ed un
testo di Enrico Mascelloni, Jouvence editrice.
Sperimenta differenti materiali
mirando al recupero dei segni, dei
comportamenti e dei riti
d¹iniziazione delle culture non-europee.
Vive e lavora a Roma.
www.arte2000.net
mfioramanti@yahoo.it